martedì 15 dicembre 2009

IL Mito del Minotauro


Il mito ci porta a Cnosso, sull'isola di Creta dove, in un favoloso palazzo, viveva il re Minosse. Un giorno Poseidone inviò sull'isola un magnifico toro bianco perché Minosse lo sacrificasse, ma questi si rifiutò di ucciderlo. Il dio ne fu tanto oltraggiato che fece perdutamente innamorare del toro a lui destinato la regina Pasifae. Con l'aiuto di Dedalo, che costruì per lei una giovenca di legno entro la quale celarsi, la regina attirò a sé il toro bianco.Frutto di questa unione nacque una orrenda creatura dal corpo di uomo e testa di toro, il Minotauro: Dedalo fu incaricato di costruire una prigione sicura per il mostro. Realizzò una struttura formata da un tale intrico di strade che chiunque vi entrasse non potesse più uscirne: il dedalo, appunto. Il Minotauro si cibava esclusivamente di carne umana: furono gli esiti della guerra tra Creta e Atene a offrire la soluzione a questo problema. Quella di Atene fu una resa senza condizioni: Minosse poté imporre, tra l'altro, di inviare sull'isola ogni nove anni sette ragazzi e sette fanciulle da sacrificare al mostro.Così, alla scadenza stabilita, a primavera una nave nera dalle vele nere salpava dal Pireo con a bordo i quattordici giovani ateniesi, finché Teseo, figlio del re Egeo, non decise di fare qualcosa per porre fine a questa condanna. Partì per Creta con gli altri giovani destinati al Minotauro, nonostante le proteste del padre, convinto che non lo avrebbe più rivisto. Teseo gli promise che se l'impresa fosse riuscita, la nave sarebbe rientrata spiegando delle vele bianche. Giunta a Creta, i giovani vennero accolti con un sontuoso banchetto, durante il quale la principessa Arianna, figlia di Minosse, si innamorò di Teseo e decise di salvarlo: gli diede una spada con la quale uccidere il mostro e un gomitolo di filo da utilizzare per poter ritrovare l'ingresso del dedalo. Teseo riuscì a uccidere il Minotauro e Arianna aprì a lui e alle altre vittime la grande porta di bronzo all'uscita.Così Teseo, i suoi giovani compagni e Arianna ripartirono alla volta di Atene. Arianna fu però abbandonata sull'isola di Nasso e Teseo, dimentico della promessa, arrivò ad Atene con la nave dalle vele ancora nere: Egeo non resse al pensiero di aver perso il figlio e si gettò da Capo Sunio in quel mare che da lui prese il nome.

Il labirinto


Cos'è il labirinto?
Il labirinto è formato da un unico corridoio che procede dalla parte esterna al centro di una spirale (labirinto unicursale): è comunque un percorso faticoso, ma prima o poi, dopo allontanamenti e riavvicinamenti successivi, se ne raggiunge il centro.Nell'accezione comune prevale l'uso del termine "labirinto" anche per indicare il dedalo, dal nome del mitico costruttore della struttura che custodiva il Minotauro. Il dedalo è una via fatta di biforcazioni, crocicchi o cammini ciechi, un intrico di corridoi, stradine e percorsi alternativi, uno solo dei quali conduce al centro della struttura e ne rende particolarmente difficile l'orientamento, nonché il raggiungimento dell'uscita.Il significatoIl labirinto rappresenta simbolicamente il viaggio nell'al di là e ritorno: entrarvi è la morte, uscirne la rinascita. Dal momento stesso in cui l'uomo ha iniziato a rappresentare visivamente il proprio mondo, ha inteso la vita come qualcosa di caotico, complesso, ma non per questo scollegato dal resto dell'universo. La storia conosce diverse varianti, ma il viaggio al centro del labirinto o del dedalo è sempre un simbolo della danza della vita e della morte. I Maya, per esempio, intendevano il labirinto come una spirale che collegava in un percorso non privo di significati la nascita, la fertilità e la morte.Il viaggio che si compie lungo un percorso sacro costituisce un rituale mistico che si ritrova in tutte le tradizioni spirituali. È una meditazione che rasserena la mente ed evoca un sentimento sacro di appartenenza e completezza. Può essere difficile guardare l'andamento a spirale di un labirinto; entrare fisicamente nei suoi meandri può disorientare, ma si tratta solo di un'illusione: in realtà avvicina alla comprensione del mistero del cosmo.Camminare nel labirinto è una metafora della vita. Alla fine del percorso bisognerebbe sempre riflettere sull'esperienza vissuta: i pensieri e le immagini che sono venuti in mente, la difficoltà nel seguire il percorso, le persone incontrate durante il cammino e le modalità di relazione con esse. Il comportamento e i pensieri che hanno contrassegnato il vostro viaggio vi sveleranno qualcosa del vostro modo di vivere.

il viaggio e la fantasia


Il mondo e la fantasia.
Il viaggio può anche essere una narrazione fantastica ambientata in un contesto reale: l'esempio più noto è quello dell'Odissea di Omero (sec. VIII a.C.), in cui le straordinarie vicende che segnano il ritorno dell'eroe navigatore coinvolgono mostri e divinità ma hanno come sfondo le isole e le coste del mar Mediterraneo. A questo poema si è ispirata in gran parte l'epica successiva: Apollonio Rodio (295 - 215 a.C.), autore delle Argonautiche, narra il viaggio nel mar Nero degli eroi greci alla conquista del vello d'oro e Virgilio (70 - 19 a.C.) imposta l'Eneide sull'accidentato cammino di Enea da Troia distrutta verso I'ltalia. Abbastanza vicina a questo modello è la novellistica medievale, specialmente nelle Mille e una notte, il cui nucleo centrale è costituito dalle peripezie di Sindbad il marinaio. Dopo le grandi scoperte geografiche anche la creazione fantastica ha assunto come punto di riferimento una dimensione più ampia (come testimonia il poema epico I Lusiadi del portoghese Luiz Vaz de Camões, 1525- 1580), in cui emerge il gusto per l'esotismo e il confronto tra il modo di vivere europeo e le civiltà più lontane e sconosciute. Nel romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1660 - 1731) all'ambiente misterioso e selvaggio dell'isola tropicale si oppone la razionalità europea del marinaio. Di natura fantastica e filosofica è la peregrinazione tra Europa e nuovo mondo del Candido ovvero l'ottimismo di Voltaire (1694 - 1778). L'800 romantico, se da un lato si sente attratto dagli orizzonti lontani ed esotici (Atala o gli amori di due selvaggi nel desèrto e Itinerario da Parigi a Gerusalemme) di Francois René de Chateaubriand, 1768 - 1848; Il viaggio in Oriente di Gérard de Nerval, 1808-1855) e arcanamente inquietanti (Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, 1809 - 1849), dall'altro scopre I'ltalia come destinazione dei viaggi dei suoi personaggi: celebre è il Pellegrinaggio del giovane Aroldo di George Gordon Byron (1788 - 1824). Una grandiosa metafora di una lotta strenua contro forze ignote e malefiche è la lunga caccia alla balena bianca in Moby Dick di Herman Melville (1819-1891). Nella seconda metà del secolo la letteratura positivista è affascinata dalla potenza dei moderni mezzi di trasporto: ne è un esempio Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne (1828- 1905). Nel mondo sempre più esplorato e conosciuto c'è meno posto per avvenimenti strabilianti, ma il viaggio conserva e sotto certi aspetti accentua il proprio carattere simbolico: in La linea d'ombra di Joseph Conrad (1857- 1924) la navigazione rappresenta il percorso verso la responsabilità, nella Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (1908 - 1966) è una riscoperta delle ragioni della vita, in La luna e i falò di Cesare Pavese ( 1908 - 1950) è la presa di coscienza delle proprie radici, nelle pagine di Sulla strada di Jack Kerouac (1922 - 1969) è la scelta estrema della libertà.

Il viaggio in Italia
L'Italia era solitamente l'ultima tappa del Grand Tour: culla della tradizione artistica europea, paese celebrato da poeti e prosatori, sede dello stato papale, terra di grandi e potenti città come Venezia, essa costituiva il vero obiettivo di tutti i viaggiatori dell'epoca. Raramente si giungeva per mare o attraverso quella che veniva chiamata la "Cornice", cioè la via che per la sua strettezza non era percorribile dalle carrozze e che da Nizza, passando per Monaco, portava a Genova. Più frequentemente l'accesso avveniva attraverso le Alpi: chi arrivava dalla Francia valicava il Moncenisio, dalla Svizzera i passi del Piccolo e del Gran San Bernardo, del San Gottardo e del Sempione, dagli stati germanici il Brennero e il Resia.
Tutti i viaggiatori si dicevano angosciati all'idea di dover percorrere gli stretti e malagevoli sentieri, spesso a dorso di mulo, in portantina o su slitte. Il cammino veniva percorso con grande lentezza, onde evitare di cadere in scoscesi dirupi. Quello che emerge nella maggior parte dei diari di viaggio è una viva preoccupazione che si ridestava a ogni buca o scossone, ma soprattutto il senso della propria nullità di fronte alla vastità e all'imponenza del paesaggio montano. Per lo più da Genova ci si spostava in Toscana, a Livorno, quindi a Pisa, a Lucca e a Firenze. Questa regione era la più apprezzata dagli inglesi per la mitezza del clima e per la dolcezza del paesaggio, perché luogo di divertimento, riposo e, nello stesso tempo, cultura. Da qui si arrivava a Roma, la città eterna in cui si sostava per settimane, a volte per mesi: si visitavano i musei, i resti archeologici, i fori e le ville. Successivamente ci si recava a Napoli, centro urbano popolato da gente festosa, luogo dove trovare serate mondane e vita notturna, passeggiate sul lungomare tra bancarelle illuminate e colorate. I visitatori si dicevano colpiti dalle bellezze naturali che si alternavano alle antiche rovine (spesso si notava che il paesaggio vulcanico del Vesuvio faceva da sfondo agli scavi di Pompei ed Ercolano).
Una volta arrivati a Paestum si cominciava a risalire. Non ci si spingeva quasi mai in Calabria, raramente si arrivava in Sicilia e, quando ciò accadeva, ci si limitava a seguire in barca le coste dell'isola, approdando nelle località più note. La Sicilia, infatti, era tristemente nota per il pessimo stato delle vie di comunicazione e per la quasi totale assenza di locande. Una volta lasciato il territorio di Napoli, dunque, ci si dirigeva ad Ancona, quindi al santuario di Loreto, a Ravenna, a Bologna e a Ferrara. Venezia, in particolare, attraeva i grand tourist: proprio in questo periodo la città lagunare assunse agli occhi dei visitatori un'aura mitica, le descrizioni che riguardano le sue istituzioni e il suo popolo erano il più delle volte lontane dalla realtà, frutto di stereotipi radicati (i diari di viaggio di questo periodo, infatti, crearono un mercato librario destinato a dar vita a tanti luoghi comuni). Venezia era celebrata come ex potenza marittima e commerciale, indipendente dal papato, luogo dove trovare stabilità di governo e dove si perseguiva una politica di pace. Dopo Venezia ci si dirigeva a Padova, a Verona e, infine, a Milano e a Torino. Queste tappe, tutte convenzionali, erano scandite in base alle stagioni e alle festività: si evitava, ad esempio, di passare le Alpi durante l'inverno, mentre ci si premurava di essere a Venezia in occasione del Carnevale o per l'Ascensione, a Roma per la Settimana Santa. Questo percorso era suscettibile di varianti, anche se per lo più il viaggiatore seguiva itinerari standardizzati e visitava i luoghi più famosi: molto raramente, infatti, si avventurava per strade sconosciute.
Gli interessi umanistici, storici e antiquari che spingevano tanti giovani a visitare l'Italia erano così forti da far passare in secondo piano tutti i disagi del viaggio: tempo inclemente, stazioni di posta poco numerose (ci sono rimaste testimonianze di viaggiatori costretti a passare la notte all'addiaccio), periodi di quarantena da trascorrere isolati quando si diffondeva qualche epidemia (tra i documenti che i grand tourist dovevano portare con sé c'era la cosiddetta "bolletta di sanità", un vero e proprio certificato medico), perquisizioni minuziose ed estremamente moleste da parte della polizia (che spesso doveva essere corrotta per lasciar passare il viaggiatore in tempi brevi), senza dimenticare il pericolo costituito dai briganti che infestavano alcune delle vie di comunicazione più trafficate (le guide dell'epoca consigliavano di non portare con sé denaro contante, se non in minima parte e ben nascosto nelle fodere degli abiti, ma di preferire le cambiali). L'Italia esercitò un enorme fascino sui giovani viaggiatori stranieri, fascino vivo ancora oggi viste le migliaia di visitatori che ogni anno giungono nel nostro paese, attratti dalla sua fama di terra d'arte e di cultura.

Il viaggio nell Settecento e Ottocento


Il grand Tour


Il Settecento vede moltissimi giovani, per lo più inglesi, partire alla volta delle grandi città d'arte europee. Stiamo parlando del Grand Tour, un fenomeno che ha avuto origine in epoca elisabettiana, ma che vede il proprio massimo sviluppo nell'epoca dei lumi. Le sue origini vanno ricercate nella peregrinatio academica medievale, il viaggio che il giovane di nobile famiglia intraprendeva per un anno nelle città universitarie più note, in particolare Bologna e Parigi, al fine di concludere il proprio cursus studiorum. Nel Settecento il viaggio d'istruzione diventa una vera e propria moda che non solo gli aristocratici, ma anche gli appartenenti all'alta borghesia possono permettersi. I percorsi seguiti sono quelli tracciati e tramandati dalle migliaia di predecessori: i giovani rampolli del regno britannico, ad esempio, sono soliti recarsi nella Francia centrale, per poi giungere in quella meridionale e di lì, in Italia. I viaggiatori di altri stati, che sono in numero inferiore rispetto agli inglesi, seguono percorsi diversi: i francesi amano visitare l'Inghilterra, la Germania e l'Italia, gli spagnoli la Francia, la Germania e l'Italia, gli austriaci e i tedeschi il Belgio, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e l'Italia. Il nostro paese segna l'epilogo del viaggio e, nello stesso tempo, il vero obiettivo, in quanto luogo d'origine del pensiero classico, custode di preziose testimonianze che l'archeologia, proprio in questo periodo, ha cominciato a riportare alla luce (si pensi solo agli scavi di Pompei). Ma che cosa spinge tutti questi giovani a intraprendere viaggi lunghi e disagevoli? Sicuramente si può parlare della volontà di procurarsi una formazione completa in vista della futura carriera: una volta tornati in patria, la cultura cosmopolita acquisita durante il passaggio in terre straniere, permetterà loro di ricoprire svariati incarichi nelle strutture burocratiche e amministrative del proprio paese. Si tratta insomma di un vero e proprio rito di iniziazione che trasforma il giovane adolescente (di norma tra i sedici e i ventidue anni) in adulto, facendogli fare esperienza delle cose del mondo e preparandolo a diventare un buon burocrate, un diplomatico svezzato o un militare eccellente. La classe dirigente del Settecento considera il Grand Tour un mezzo per conoscere costumi e lingue straniere, una palestra in grado di far acquisire ai giovani sicurezza, intraprendenza e coraggio, una prova che sviluppa in chi la affronta uno spirito cosmopolita, un modo, insomma, per rinnovarsi nello spirito e per crescere.
Il viavai di grand tourist fa sì che nell'arco di pochi decenni vengano prodotte, oltre ad un numero infinito di guide, numerosissime relazioni di viaggio con struttura diaristica o epistolare. È una pratica quasi obbligatoria tenere un diario e, chi scrive, deve dimostrare di possedere le competenze di un geografo, di un economista, di uno studioso dell'arte, di un agronomo e di un antropologo: di tutte quelle scienze che il cursus studiorum precedente il viaggio dovrebbe insegnare. Le regole seguite nella stesura di questi resoconti vengono fissate nel Settecento: prima di tutto il diario di viaggio deve unire l'utile al dulce, deve cioè fornire informazioni sulle terre e i popoli visitati, senza risultare però pedante, deve divertire e suscitare la fantasia del lettore, senza ricorrere al romanzesco o all'invenzione. Spesso è suddiviso in due parti: la prima descrive pedissequamente città, popoli, clima, economia, costumi e conformazione del territorio, la seconda, redatta nelle intenzioni degli autori per amici e familiari, riporta le avventure occorse durante il viaggio, gli incidenti di percorso, i piccoli aneddoti, tutti quegli episodi avventurosi che potrebbero destare la fantasia, rendendo gradevole la lettura. Entrambe le parti devono riportare dati derivati dall'osservazione della realtà, non il meraviglioso che ha caratterizzato tanta letteratura odeporica precedente. Se le regole per la stesura dei memoriali di viaggio scoraggiano l'introduzione della soggettività e dei sentimenti, nel Settecento l'io narrante emerge fino ad assumere una parte preponderante in quello che viene definito "viaggio sentimentale" (il più famoso è quello di Sterne, tradotto da Foscolo sotto lo pseudonimo di Didimo Chierico). Lo stile sobrio di questi diari riflette la volontà di totale adesione alla realtà, al dato oggettivo, e rifugge da qualunque artificio retorico, tutte intenzioni che ritroveremo in chi, nell'Ottocento, farà parte delle spedizioni scientifiche, in quegli uomini che partiranno con l'unico scopo di catalogare e studiare i dati raccolti in giro per il mondo.

festival letteratura di viaggio



http://www.festivaletteraturadiviaggio.it/index.aspx

il viaggio nel Rinascimento


I Viaggi nel Rinascimento
La scoperta delle Americhe costituisce un punto di svolta per la storia dell'umanità: a essa seguono profonde revisioni nel campo dell'economia, della politica, della religione, nella sfera sociale e in tutte le forme di pensiero ereditate dagli antichi. Pensiamo, ad esempio, cosa può aver provocato nel mondo mercantile, la possibilità di tracciare nuove rotte, di esplorare terre che non avevano conosciuto fino a quel momento alcuno sfruttamento. Il desiderio di conoscere il nuovo continente cresce di giorno in giorno e spinge molti tra coloro che lo hanno visitato a redigere memorie di viaggio. Tali testi, a loro volta, fungono da cassa di risonanza e sollecitano altri occidentali ad andare ad appurare de visu quanto hanno letto.
Ci troviamo di fronte a due tipi di viaggiatore e, di conseguenza, a due tipi di racconti di viaggio: c'è il mercante che parte e annota tutto ciò che gli può tornare utile per il commercio e il guadagno. Ma c'è anche l'erudito che nutre un desiderio tutto umanistico di conoscenza. Gli scritti del primo non si discostano molto da quelli medievali di Marco Polo, sono solo più scrupolosi nel riferire le caratteristiche delle popolazioni incontrate e danno poco (o nessuno) spazio ai mirabilia, alle storie favolose e ai mostri leggendari che la tradizione vuole insediati ai confini delle terre abitate. Con il secondo, in particolare, nasce una nuova figura di viaggiatore: si tratta dell'esploratore che non è mosso dalla sete di guadagno, ma dalla pura e semplice volontà di studiare il mondo e di essere utile a chi vorrà seguire i suoi passi o, semplicemente, leggerne i resoconti standosene comodo a casa. Alla prima categoria, appartiene, ad esempio, Francesco Carletti, un fiorentino che narra di aver viaggiato per scopi commerciali e, successivamente, per recuperare la mercanzia sottrattagli da pirati olandesi. Della seconda fa parte invece Antonio Pigafetta, il nobile vicentino che segue Magellano nella sua circumnavigatio globi: entrambi sono comunque accomunati da un'osservazione rigorosa delle realtà con le quali entrano in contatto.
La letteratura di viaggio rinascimentale rivela una riscoperta di sé da parte dell'europeo: mentre le popolazioni aborigene vengono sistematicamente considerate primitive, l'occidentale, che acquista maggior consapevolezza della propria cultura e del proprio sviluppo, arriva a definirsi evoluto e moderno. Il viaggiatore del Vecchio Mondo osserva gli indigeni americani e nota che la maggior parte di loro non indossa abiti, non conosce la "vergogna" e la repressione sessuale, non ha leggi e tribunali, non fa uso del denaro, ma conosce solo il baratto. Costoro sono descritti come esseri timidi e generosi che vivono in uno stato pacifico, quasi edenico (nasce in questo periodo il mito del "buon selvaggio"), vicino, secondo le credenze del tempo, alla condizione originaria dell'uomo, prima che il tempo e le vicende storiche potessero corromperla. L'immagine del nuovo mondo ha molti punti in comune con quella della mitica età dell'oro tramandata dagli antichi.
Lungi dal voler esaurire in poche righe un argomento così complesso, anzi volendo sottolineare quello che le grandi scoperte hanno contribuito a operare nella nostra civiltà, si potrebbe dire che l'Europa tutta fu costretta a riflettere sull'immagine che aveva di sé, a considerare la propria storia come corruzione sì dell'innocenza originaria, ma anche come progresso, a non vedersi più in un perenne rapporto di inferiorità rispetto agli antichi, in particolare ai greci e ai romani, ma a considerarsi evoluta e matura. A ciò contribuirono tutti gli uomini che in quegli anni, per motivi disparati, viaggiarono in lungo e in largo attraverso gli oceani e la terraferma. Consapevoli osservatori e scrupolosi raccoglitori di dati, divennero veicolo di diffusione delle nuove conoscenze e anticiparono la figura del viaggiatore scienziato dei secoli successivi.

Il tema del viaggio nel Decameron


Anche Boccaccio riprende il tema del viaggio in diversi modi: ritroviamo il viaggio della brigata, dell'autore e dei vari pesonaggi delle novelle. nel Decameron il Boccaccio connota la lettura come viaggio, l’autore parte da una situazione negativa (cupi pelaghi) e grazie ai piacevoli ragionamenti e alla consolazione raggiunge il piacere, così il pubblico del Decameron inizia questo viaggio grave e noioso (Dec. Introduzione, 2) rimanda allusivamente alla gravezza e alla noia (If I, 52 e 76), che definiscono le condizioni di Dante smarrito nella selva all’inizio del viaggio.
“del resto il motivo del viaggio e la metafora del cammino vengono ripresi da Boccaccio in modo esplicito:

Questo orrido cominciamento vi fia non altrimenti che a’ camminanti una montagna aspra ed erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, i quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello smontare la gravezza (Dec Intr. 4)

L’immagine di chi si mette in cammino richiama ovviamente il Dante viator «nel mezzo del cammin», la montagna aspra e erta richiama la «selva selvaggia aspra e forte», il «bellissimo piano e dilettevole» richiama il «bel monte», il «dilettoso monte». Boccaccio usa la metafora del cammino usando marche semantiche dantesche per esprimere una poetica diversa; ecco perché il ribaltamento operato da Boccaccio: Dante parte da un luogo piano («diserta piaggia»: If. II, 63) verso il «dilettoso monte» (If. I, 77), il pubblico dei lettori del Decameron compie il tragitto opposto, dalla «montagna aspra ed erta» a un «bellissimo piano e dilettevole» e da confrontare con il percorso della Brigata.

La brigata è il terzo protagonista che rappresenta una sorta di disseminazione del soggetto scrivente, che nei personaggi narranti raffigura sia stati e stadi psicologici del proprio io sia protagonisti delle opere precedenti. La brigata si muove entro una situazione di caos rappresentato dalla peste e dalla conseguente dissoluzione dei principi su cui si basa la convivenza civile e cittadina. L’esigenza della brigata è quella di creare un ordine. La brigata si muove sotto il segno del viaggio che è i viaggio dell’intelligenza dal caos delle passioni all’ordine della ragione.
È interessante notare che il discorso in apertura è fatto da Pampinea:

E per ciò, acciò che noi per ischifaltà o per tracutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gra copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne neg, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; e èvvi,oltre a questo, l’aere assai più fresco….(Dec, Intr. 65-66). Qui Pampinea esorta e incoraggia i compagni così come nella Commedia Virgilio incoraggia Dante. L’esodo dalla città verso i luoghi del contado coincide con il passaggio dalla disonestà all’onestà: il risvolto della bestialità e l’onestà. Ma il parlare di Virgilio è onesto cfr If II, 113 e la brigata si propone di raggiungere l’ «allegrezza» e il «piacere» onestamente Dec Intr. 65; e allora questa fuga dalla disonestà verso l’onestà dal caos all’ordine è la fuga verso la poesia. Non a caso Pampinea, una volta raggiunto il locus amoenus è incoronata con l’alloro che è la pianta del trionfo poetico.

I viaggi di Dante



La Divina Commedia
L'esperienza dantesca testimoniata dalla Commedia può essere letta sotto diversi punti di vista: come percorso di vita del personaggio storico Dante Alighieri, di Dante protagonista di un racconto favoloso, di un'anima impegnata nella ricerca della salvezza eterna, dell'intera umanità avvolta nel peccato rappresentata simbolicamente da un suo rappresentante. Il viaggio che, lungo le tre cantiche, si sviluppa dalla selva oscura alla luminosità del Paradiso, pur risentendo di queste molteplici interpretazioni può essere analizzato sotto due aspetti: quello realistico di un uomo che attraversa innumerevoli ostacoli per giungere al termine del suo cammino e quello, allegorico, della redenzione dello spirito umano dal peccato. L'allegoria è un elemento fondante della Commedia, dalla scelta delle tre fiere all'ingresso dell'Inferno alla complessa simbologia legata al numero tre che tante volte ritorna nel corso dei cento canti. Questa figura retorica, per Dante indispensabile, permette proprio di mantenere il significato del discorso su due livelli, uno di immediata comprensione e l'altro sotteso al primo. Due chiavi di lettura sono perciò necessarie per potersi avvicinare compiutamente alla grande opera dantesca, affinché possano essere colte nella loro interezza le numerose sfumature che si nascondono tra le pieghe delle migliaia di terzine elaborate dal sommo poeta.Il viaggio di più immediata lettura, quello che il personaggio Dante porta a termine attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso, si svolge nell'arco di una settimana, precisamente la settimana santa del 1300, anno in cui fu indetto il Giubileo da papa Bonifacio VIII. Già a questo livello della narrazione è possibile cogliere dei particolari che rendono la scansione temporale fortemente simbolica; Dante, infatti, fa il suo ingresso nei tre regni ultraterreni in momenti precisi della giornata: nell'Inferno di notte, nel Purgatorio all'alba, nel Paradiso a mezzogiorno. Allegoricamente si va quindi dalla disperazione, alla speranza, alla salvezza, in un crescendo di purificazione che va di pari passo con il passaggio nei tre mondi.I due livelli del viaggio dantesco differiscono quindi per ciò che concerne le specificazioni di tempo e di spazio; quello letterale, come si è già notato, ha limitazioni e scansioni molto precise, sottolineate dal poeta grazie a elaborate perifrasi che contestualizzano i suoi incontri con le numerose anime che si frappongono al suo cammino. Il viaggio "allegorico" non ha invece di queste restrizioni, essendo estendibile a ogni anima che voglia portare a termine un percorso di redenzione: il momento in cui avviene potrebbe essere un qualunque intervallo di tempo, trascorso tanto nell'antichità quanto nel futuro rispetto a quando Dante scrive. Questo stesso discorso vale anche per il protagonista del viaggio che, nel caso di quello letterale, è un preciso personaggio, il poeta fiorentino con le sue caratteristiche, le sue paure, le relazioni vissute nel suo tempo; il viaggio simbolico, invece, potrebbe essere intrapreso da una qualunque anima cristiana, testimone di un qualsiasi periodo storico. Questa differenziazione comporta anche un'ulteriore distinzione in merito alla possibilità di ripetere il viaggio: Dante, nella veste di protagonista della Commedia, non potrà ripercorrere una seconda volta l'esperienza intrapresa nel mezzo del cammin di nostra vita, in quanto l'unicità di tale esperienza la rende allo stesso tempo valevole dal punto di vista allegorico. Se ci sarà, perciò, un altro cammino sarà quello che devono compiere tutte le anime dopo la morte, quello che accomuna gli uomini nella ricerca della salvezza eterna e che, di conseguenza, non avrà alcun significato simbolico.Ciò che avvicina le due tipologie di viaggio presenti nell'opera dantesca è il loro esito: entrambe, infatti, si concludono felicemente, l'una con l'arrivo alla meta che il poeta si era prefisso all'inizio della sua fatica (il Paradiso), l'altra con il raggiungimento della visione del sommo bene. Per far ciò è stato però necessario affidarsi a una guida che indicasse il cammino da seguire e, come il personaggio Dante trova, in Virgilio prima e in Beatrice poi, maestri attenti nell'istruirlo sulla struttura e le caratteristiche dei tre regni ultraterreni, così l'anima peccatrice deve rimettersi a Dio per poter sperare di conquistare la pienezza umana. Il fine ultimo del viaggio della Commedia è, infatti, quello di far ritorno in un luogo che era già stato assegnato all'uomo e cioè il Paradiso; questo è il compimento di un percorso che si è protratto lungo l'intera durata della vita e che deve avere come risultato la conquista della vera immagine di sé e, di conseguenza, della felicità. Sotto questo aspetto il viaggio letterale sostanzialmente non differisce da quello allegorico: anche qui, infatti, la meta del tragitto è ben presente lungo l'intero suo svolgimento. Le figure dei dannati, dei penitenti e dei beati che Dante via via incontra sul suo cammino non sono altro se non la rappresentazione stessa di Dio, fine ultimo di ogni sforzo che il peccatore compie sulla strada della redenzione.I due livelli di interpretazione della Commedia sono legati indissolubilmente fra loro, fino a sfumare addirittura l'uno nell'altro: il viaggio nell'aldilà è, infatti, l'allegoria del viaggio dell'uomo nella vita terrena.

il Milione


Il Medioevo non è solo l'epoca dei fantasiosi viaggi cavallereschi narrati da Chrétien de Troyes, ma anche dei più realistici resoconti di viaggio mercantili. Tra questi ultimi, caratterizzati da un approccio quasi scientifico alla materia, spicca il Milione, o Libro delle Meraviglie, di Marco Polo. Ciò che balza subito agli occhi è la precisa volontà del veneziano di rendersi utile ad altri mercanti, fornendo loro notizie su usi e costumi di popoli sino ad allora sconosciuti (in questo non si discosta dai contemporanei). Nel prologo, Rustichello, che la tradizione considera trascrittore delle memorie del mercante veneziano, così si esprime "…però (Marco Polo) disse infra sé medesimo che troppo sarebbe grande male s'egli non mettesse in iscritto tutte le meraviglie ch'egli ha vedute, perché chi non le sa l'appari (le impari) da questo libro". Marco, infatti, non vuole descrivere solo le terre che ha visto, ma anche quelle di cui ha sentito parlare e riguardo alle quali è grande la curiosità dell'Occidente.Un altro atteggiamento che lo avvicina ai contemporanei si ritrova nella mescolanza di dati reali e racconti fantasiosi, anche se Marco Polo dichiara di volersi distinguere per una maggior aderenza alla realtà: "Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta (le genti e le differenti usanze orientali) in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v'ha di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà di veduta e l'altre per udita, acciò che 'l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna". Nel Milione, insomma, convivono il meraviglioso, tipico della letteratura cortese, incline all'enfasi e alla mitizzazione, e la concretezza della mentalità mercantile del tempo. Ai dati inerenti alla flora e alla fauna del continente asiatico, alle usanze e alle lingue locali, alle arti e all'etnografia, al sistema monetario e al clima, tutti forniti con estrema precisione, se ne sovrappongono altri che nulla hanno a che fare con la realtà. Il lettore può quindi venire a conoscenza delle usanze di alcuni popoli, riportate come in una cronaca, senza che Marco Polo esprima il benché minimo giudizio moralistico, dimostrando anzi una grande apertura mentale (ad esempio quando parla delle abitudini sessuali degli abitanti del Tibet). Ma può ascoltare anche la leggenda dei Re Magi, che il veneziano considera vera, la descrizione fantasiosa della città di Quisai e quella ancor più fiabesca del palazzo del Gran Khan, senza dimenticare il passo in cui si narra del mitico Cipangu, il Giappone. Secondo alcuni studiosi questa dicotomia nell'approccio alla realtà va attribuita a Rustichello da Pisa, autore di romanzi cavallereschi che, come già si è avuto modo di dire, trascrisse in carcere sotto dettatura le memorie del compagno di cella. A lui, alla sua mentalità cortese cioè, sarebbero attribuibili tutti quegli elementi avventurosi e pittoreschi che si discostano dalla realtà.Al di là delle possibili disquisizioni, quel che a noi importa sottolineare resta, comunque, la frattura che il Milione segna nella storia della letteratura odeporica medievale: cronaca, trattato scientifico e romanzo, esso costituisce una tappa fondamentale verso i resoconti di viaggio rinascimentali, intrapresi in nome della scoperta, della soddisfazione della curiosità e del desidero di apprendere.
Il Veglio della Montagna
Marco Polo, come i suoi contemporanei, è affascinato dall'Oriente, dai personaggi che ne hanno fatto la storia e dai racconti spesso favolosi che di loro si narrano in Occidente. Spiccano tra questi, la figura del Prete Gianni, sovrano di un popolo di eretici cristiani dell'India, del Qubilai Khan, potente reggitore dell'impero gengiskhanide, e del Veglio della Montagna, capo di una setta ismaelita. La descrizione di quest'ultimo, in particolare, è significativa: Marco Polo si trova a parlare dei tradizionali nemici della civiltà cristiana e dimostra ancora una volta grande apertura mentale. Infatti, limita i giudizi e mostra solo di voler comprendere ciò che percepisce diverso dalla cultura medievale cristianocentrica dell'Europa.Il mercante veneziano non attraversa il territorio dove i seguaci del Veglio della Montagna erano insediati, ovvero la provincia persiana del Mazanderan, nella parte meridionale del Mar Caspio. Si limita a riferire ciò che di loro si favoleggia, utilizzando toni fiabeschi e riportando notizie ben lontane dalla realtà. È necessario inoltre aggiungere che quando la famiglia Polo si mette in viaggio, la setta non esiste più da diversi anni: nel 1256 Hulagu Khan ne ha ucciso l'ultimo capo e ne ha disperso i seguaci sopravvissuti. In Europa, tuttavia, la sua fama non si è ancora spenta, e il fatto che Marco Polo vi dedichi ben tre capitoli lo dimostra. Fondata nel 1090 da Hassan Sabbah, non segue i precetti di Maometto, ma gli ordini del proprio capo, inoltre pratica l'omicidio organizzato come strumento politico. Nell'arco dei decenni, gli Assassini uccidono potenti signori musulmani e califfi, attentano alla vita del Saladino, del principe d'Inghilterra Edoardo e del Gran Can dei Tartari, suscitando anche la preoccupazione di Federico II e del re di Francia, Luigi IX. La loro strategia consiste nell'entrare a far parte del seguito della vittima per ucciderla dopo aver ricevuto l'ordine. La missione termina il più delle volte con il sacrifico della vita. Si capisce quindi come la loro fama abbia raggiunto e affascinato l'Occidente e per quale motivo Marco Polo senta l'esigenza di parlarne. Egli dipinge le loro fortezze come veri e propri paradisi e racconta che il Veglio della Montagna ha trasformato un'arida valle in uno splendido giardino dove scorrono miele, latte e vino. Qui, all'interno di palazzi dorati, una corte sfarzosa è sempre occupata in canti e balli. Il Veglio attira giovani adatti alle armi, li droga (secondo alcuni il termine Assassini deriva da hashish) e fa loro credere di trovarsi nel paradiso promesso da Maometto. Disposti a compiere i delitti più efferati nel timore di perdere tutto ciò, i giovani cominciano un lungo apprendistato, vengono addottrinati con la lettura quotidiana di libri sacri e si danno all'uccisione di personaggi sempre più importanti. Insomma, la lotta per un ideale religioso contro l'islamismo sunnita dominante, la fedeltà assoluta al proprio signore che sconfina nella morte sicura, la ritualità degli omicidi (sempre compiuti con i coltelli), la ferocia nel portare a termine il compito, il fatto che i seguaci della setta vivano arroccati nei loro castelli sparsi sulle montagne e le dicerie sul loro addestramento sono tutti elementi che contribuiscono a diffondere la fama di quest'ordine e a dar vita a numerose leggende di cui l'autore del Milione è tra i principali testimoni.

lunedì 14 dicembre 2009

ll viaggio nel Medioevo: il romanzo cavalleresco

Il romanzo in ottonari di Chrétien de Troyes, Ivano, mostra un'evoluzione nel modo di concepire il viaggio rispetto all'epoca antica. Se nel canto di Gilgamesh e di Odisseo si parte per una necessità o per una costrizione (la guerra e il volere degli dei), nei romanzi cavallereschi il viaggio è un lusso che solo gli uomini liberi possono permettersi. I presupposti storici, del resto, sono totalmente diversi: mentre presso le antiche società nomadi o seminomadi il viaggio costituiva l'unico modo per garantirsi approvvigionamenti e sopravvivenza, per l'uomo medievale, spesso legato da vincoli di vassallaggio al proprio signore, il viaggio, e soprattutto il viaggio solitario, è la dimostrazione della libertà e dell'autonomia. Significativa, a tale proposito, è la testimonianza che fornisce una legge di Enrico II: quando un signore aveva intenzione di affrancare un suddito, aveva l'obbligo di donargli una spada e una lancia e di condurlo presso un crocevia, indicandogli in questo modo la libertà di scegliere quale strada intraprendere. Il divieto di portare armi e di partire senza permesso, si identificavano, invece, con la condizione di servitù. Un'altra grande differenza tra le opere antiche e quelle cortesi consiste nelle finalità e negli stati d'animo con cui il viaggio viene intrapreso: Gilgamesh si mette in cammino perché desideroso di gloria e immortalità, i cavalieri medievali vogliono portare aiuto ai più deboli. Se la prima partenza di Ivano è motivata ancora dalla fama, essendo uno stilema arcaico, la seconda ha un fine altruistico, combattere contro i soprusi che mostri e giganti attuano solitamente ai danni di fanciulle indifese. Ivano corre in aiuto della signora di Norison, che l'ha guarito dalla follia, e vince in duello il conte Alier, nemico della donna. Salva un leone da un serpente, senza aspettarsi gratitudine, ma temendo di venire sbranato dalla belva. Sottrae Lunetta al rogo dopo averne sconfitto gli accusatori. Protegge un castellano e la sua famiglia, duellando contro il temibile gigante Harpins della Montagna. Libera trecento fanciulle che sono tenute segregate nel castello della Pessima Avventura, uccidendo due esseri mostruosi. Infine, difende la causa della figlia minore del signore della Nera Spina contro la sorella che le vuole sottrarre l'eredità.Nei poemi antichi partire significa andare incontro all'inatteso, logorarsi e sopportare infiniti fastidi, nonché abbandonare la propria terra e i propri cari con grande sofferenza, con il timore di non rivederli più. Nei viaggi cavallereschi, al contrario, l'eroe cerca volontariamente e con grande entusiasmo qualunque imprevisto possa metterlo alla prova. Impossibile non vedervi un atteggiamento simile a quello con cui i viaggiatori d'epoca umanistica intraprenderanno i loro viaggi per scoprire e studiare il mondo.

Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia

Esistono diverse interpretazioni a riguardo: secondo alcuni la tematica del viaggio lega a filo doppio due grandi figure della storia della letteratura mondiale, Dante Alighieri e Odisseo, protagonista dell'Odissea, in cui Omero narra le vicende successive alla guerra di Troia. Il grande poeta fiorentino pone Odisseo nell'ottava bolgia della sua Commedia, dove cioè sono puniti i consiglieri fraudolenti. Il viaggio di Dante si intreccia così con quello dell'eroe greco, accomunati dalla sete di conoscenza che spinge l'uomo a superare timori e difficoltà pur di raggiungere l'obiettivo delle sue peregrinazioni, da una parte la salvezza divina, dall'altra la scoperta dell'ignoto. Il percorso di Ulisse, rappresentato in una dimensione favolosa in cui le distanze non corrispondono a quelle realmente esistenti, è da sempre studiato analiticamente, tanto da aver dato adito a due differenti ipotesi: secondo alcuni, infatti, Odisseo avrebbe superato le Colonne d'Ercole dirigendosi verso l'Irlanda del Nord, secondo altri quello che era allora considerato il limite del mondo conosciuto non sarebbe stato valicato. Lo stretto di Gibilterra era il confine ultimo oltre cui gli antichi si figuravano l'inizio dell'ignoto e proprio su questo confine Dante rappresenta Ulisse nel suo folle volo. Il mediterraneo doveva essere di necessità lo scenario dei viaggi epici in quanto la comunicazione all'epoca si svolgeva esclusivamente attraverso la navigazione, ciò che interessa però Dante non sono tanto i mostri e le creature di ogni tipo che popolavano i racconti di quegli itinerari fantastici, quanto ciò che sta a rappresentare la figura di Ulisse nei confronti dell'intero genere umano. Egli, agli occhi del poeta, è il simbolo dell'ansia di conoscenza dell'uomo che lo spinge a portarsi oltre i limiti posti dalla ragione. Il viaggio di Dante si differenzia però da quello di Ulisse per la sua conclusione: il primo, al termine del passaggio nei tre regni ultraterreni, arriverà a vedere la luce del Paradiso che gli donerà la salvezza dell'anima, il secondo invece verrà inghiottito dalle tenebre infernali, punito a causa della sua intraprendenza.

L'Odissea


In questo percorso non potevamo dimenticare il viaggio di Ulisse
Il viaggio di Ulisse è un viaggio di ritorno ( nostos ), dalla guerra <> alla sua nativa Itaca, la patria abbandonata e ritrovata insieme alla moglie Penelope ed al figlio Telemaco. Quindi il viaggio può essere considerato inizialmente nella sua circolarità ( partenza / percorso / arrivo e recupero ) ove emerge soprattutto la finalità ultima della meta, del raggiungimento di uno scopo ( la ricongiunzione, la riconquista definitiva della stabilità attorno ai valori originari ).
Ma immediatamente, rileggendo attentamente la vicenda di Ulisse, si nota che il viaggio non può consistere solo nell'approdo al porto finale, ma piuttosto nel superamento di mille pericoli, ostacoli, prove e nella verifica di mille esperienze. Il viaggio diventa prova di conoscenza, nel senso più ampio del termine.Esso è lo stimolo naturale alla ricerca del nuovo, l'istintiva attrazione / repulsione per ciò che ci è estraneo, la misura della distanza che ci separa dalle realtà sconosciute, la sfida al confronto, l'abilità di relazionarsi con il diverso da noi, la capacità di adattamento a situazioni imprevedibili. Narrativamente l'Odissea propone queste articolazioni tematiche attraverso le avventure che toccano Ulisse: il mondo meraviglioso di mostri ( Polifemo ) maghe ( Circe ), sortilegi ( le Sirene ) e tentazioni minacciose ( Calipso ). Ma l'Odissea rivela anche un'interessante varietà di atteggiamenti nel carattere del navigatore-viaggiatore Ulisse: la tenacia nel sopportare le avversità naturali ( tempeste ), l'astuzia nell'aggirare pericolosi imprevisti ( Polifemo ), la temerarietà nel varcare la sfera del conoscibile ( viaggio agli Inferi ), l'abilità retorica nel narrare le varie tappe della sua peregrinazione ( il racconto ad Alcinoo ), l'eroismo ed il coraggio fisico, il gusto del rischio e dell'avventura.Dunque il significato del viaggio è soprattutto nel suo percorso: la meta può materializzarsi in modo imprevedibile e talvolta può addirittura sfuggire, può essere perennemente e vanamente inseguita.Nell'elaborazione del mito di Ulisse che Dante propone nel canto XXVI dell'Inferno di Ulisse emerge una nuova interpretazione del mito di Ulisse, contrassegnato da una sete conoscitiva sfrenata ( e colpevole per Dante ) che lo porta alla morte, legata al suo peccato di superbia nei confronti dei decreti divini. La violazione del sacro è un' altra delle minacce oscure che attendono chi si inoltra nei territori sconosciuti ma eccitanti della scoperta. La rivelazione di ciò che non appartiene alla nostra cultura spesso è misteriosa e rischiosa risulta l'imperfetta interpretazione dei segni proposti a chi perlustra l'ignoto da parte del divino( Coleridge ).
Il viaggio in mare è del resto metafora della vita. Essa è come una navigazione che si concluderà in un porto assalito dalla tempesta. L'esistenza ( la nave) è destinata a perdere la sua guida (la ragione) ed il poeta che rappresenta il dramma umano, si sente in balia di se stesso.

Il Viaggio nella Bibbia

Il Viaggio nella Bibbia

Il Tema del Viaggio è presente anche nella Sacra Scrittura: il viaggio di Abramo, Mosè, Tobia, Paolo di Tarso; storie, se vogliamo di "viaggi", storie che ci portano in momenti storici diversi: l'epoca dei patriarchi nell'oriente antico (intorno al 1850 circa a.C.); la schiavitù d'Egitto e l'esodo verso la Terra promessa (dal 1250 circa a.C.); i tre viaggi apostolici di san Paolo dal 46 al 58, fino all'arrivo a Roma e al martirio nel 67 d.C. A tal proposito è possibile visitare il sito
http://www.uciimtorino.it/brandone.htm

Epopea Gilgamesh


Il viaggio e l'epopea


Il tema del viaggio è spesso presente nell'epopea (Componimento narrativo, di regola esteso e in versi, che celebra imprese straordinarie, compiute in un passato leggendario, da uno o più eroi che impersonano il carattere nazionale di un popolo). La più antica epopea orientale è quella costituita dai poemi egiziani sui faraoni (celebre, in particolare, il poema sulla battaglia di Qadesh vinta dal faraone Ramesse II nel 1294 a. C. ca.) e dalla letteratura mesopotamica di ispirazione religiosa, che ha il suo capolavoro nell' Epopea di Gilgamesh, scritta in caratteri cuneiformi intorno al 2000 a. C.
Il suo mito è stato fissato in forma di poema epico nell'Epopea di Gilgamesh, giunta a noi in redazioni diverse e in frammenti di varia epoca: i testi più antichi sono del III millennio a. C. e in lingua sumerica; i più recenti sono traduzioni semitiche (babilonesi e assire) ma non prive di una loro creatività e indipendenza dall'originale. Nell'Epopea G. appare come un re di Uruk, legato in amicizia a Enkidu, altro fortissimo eroe. I due lottano per l'immortalità, ma si tratta ancora dell'immortalità in senso eroico: il conseguimento di imprese la cui fama sopravviva alla breve permanenza su questa terra. Poi Enkidu muore e G., affranto dal dolore, vorrebbe riportarlo in vita. Gli si pone così il problema dell'immortalità in senso concreto, ossia della lotta contro la morte stessa. Si mette alla ricerca dell'unico uomo che abbia potuto sfuggire alla morte: Utnapishtim, l'unico scampato al diluvio (secondo la versione babilonese). Lo trova dopo avventure d'ogni genere e ottiene da lui solo un surrogato dell'immortalità, una pianta che ha il potere di far ringiovanire. La vera immortalità – gli rivela Utnapishtim – è soltanto quella degli dei. La pianta magica sarà rapita a G. da un serpente e l'eroe resterà sconfitto dall'ineluttabilità della morte, carattere proprio alla condizione umana. Oltre che dell'Epopea, G. è protagonista di altri poemetti che, come La morte di G., G. Enkidu e gli Inferi, ecc., sviluppano temi o episodi del grande poema epico. La posizione di G. nei confronti della morte ne ha fatto, per tradizione, una specie di giudice dei morti.

domenica 22 novembre 2009


Il Viaggio


Dalle epoche più antiche ai tempi moderni sono in molti ad aver sentito l'esigenza di descrivere spostamenti vissuti in prima persona, riferiti o creati dalla fantasia. Tutti sono concordi nell'ammettere che il viaggio significa allontanamento da ciò che è conosciuto e familiare e che, attraverso l'esperienza del diverso, si arriva a una nuova o maggior consapevolezza di sé (già Omero definiva Odisseo l'uomo più saggio per il fatto che "di molti uomini vide le città e conobbe la mente"). La differenza tra i vari resoconti consiste nell'atteggiamento mentale con cui il viaggio viene affrontato: se nell'antichità esso è concepito come una penitenza, una necessità che, imposta solitamente dagli dei, genera sofferenza, nel Medioevo assume tutt'altro significato e diventa piuttosto simbolo di libertà. Bisogna però aspettare l'età rinascimentale perché partire diventi un'azione totalmente volontaria, un mezzo, nelle intenzioni di chi lo compie, per appagare la propria sete di conoscenza. È spia di questo nuovo atteggiamento il fatto che Gian Battista Ramusio, un nobile veneziano vissuto nel XVI secolo, abbia raccolto e pubblicato in un'opera mastodontica non solo i memoriali di viaggio di personaggi di cultura, educati al pensiero umanistico, ma anche le lettere di semplici marinai. E ciò per soddisfare la curiosità dei contemporanei in merito alle Indie Orientali e a quelle Occidentali di recente scoperta. Si deve attendere il Settecento, con il Grand Tour, e soprattutto l'Ottocento, con le spedizioni scientifiche, perché il diario di viaggio diventi uno strumento atto a segnalare e a catalogare tutto ciò che viene osservato nei viaggi d'istruzione nel primo caso, in terre nuove e inesplorate nel secondo.



Il viaggio più antico
Con i suoi cinquemila anni, il canto di Gilgamesh costituisce il più antico poema epico che sia mai stato scritto. Ciononostante, stupisce per la modernità con la quale vengono affrontati alcuni temi, primi tra tutti l'amicizia e il viaggio. È parere di numerosi studiosi che l'opera abbia costituito un modello per i grandi maestri dell'epica classica, da Omero (si vedano la descrizione del rapporto che lega Achille e Patroclo e la narrazione delle peregrinazioni di Odisseo) a Virgilio (l'episodio di Eurialo e Niso e, più in generale, l'errare di Enea e dei troiani superstiti).Ciò che interessa approfondire in questa sede è il motivo del viaggio, percepito dagli antichi come una fatica, una vera e propria attività che logora. Nell'epopea del sovrano di Uruk ce ne sono ben due. Il primo, compiuto da Gilgamesh ed Enkidu, ha come fine la riduzione dell'eccessiva energia del sovrano e del suo desiderio smodato di guerra e donne. Il secondo, che vede protagonista il solo Gilgamesh, pur essendo stato intrapreso per la conquista dell'immortalità, finisce con il portare all'eroe un bene più prezioso, la saggezza. Infatti, con le privazioni a cui lo sottopone, il viaggio determina un profondo cambiamento nella personalità del sovrano e lo rende un uomo saggio, più riflessivo e maturo, adatto a regnare. Come accade a Odisseo (il riferimento è d'obbligo), Gilgamesh deve passare attraverso l'abbrutimento, deve cadere in uno stato di prostrazione fisica e spirituale per poi riacquistare tutti i connotati regali. Uno degli episodi più importanti riporta il momento in cui Gilgamesh bussa alla porta di Siduri, la taverniera e narra le gesta che ha compiuto ma si vede rispondere con molta ironia che il suo stato non è propriamente quello di un re, poiché è ricoperto di polvere, veste una pelle di leone e ha le "guance scavate e il volto affranto".Solo dopo l'incontro con Uta-Napistim l'eroe può riprendere l'aspetto di un sovrano (l'episodio presenta strette analogie con quello di Odisseo alla corte dei Feaci). Fuor di metafora, la vestizione di Gilgamesh assume le connotazioni di un ritorno alla regalità, dell'ingresso in una nuova dimensione psicologica e sociale. L'eroe perde l'arroganza che l'aveva caratterizzato fin dai primi versi del poema e acquista una melanconia che lo rende più umano, sicuramente più vicino a un eroe moderno. Insomma, il viaggio, che a tutta prima può sembrare una perdita, finisce con il rivelarsi un'acquisizione, o meglio, una riscoperta di quelle caratteristiche presenti in potenza nell'animo dell'eroe (il coraggio, la forza, la curiosità, la sensibilità, la predisposizione alla sapienza e quindi alla saggezza), ma tradotte in atto solo dopo un lungo patire.